venerdì 10 settembre 2010

La Morte

La Morte rappresentata nei Tarocchi Visconti è un cadavere dal ventre aperto, col torace e il bacino che recano ancora tracce di muscolatura. Il cranio è ridotto a un teschio ghignante. Essa reca nella mano sinistra un grande arco, arma con cui è spesso equipaggiata nelle opere del tardo medio evo. Le frecce erano simbolo di decesso fulmineo e sono da ricollegare col terribile morbo che aveva decimato la popolazione europea alla metà del secolo precedente. Non a caso San Sebastiano, martirizzato con decine di frecce, era anche uno dei santi che si invocavano per proteggersi dalle epidemie. Nei Tarocchi marsigliesi lo scheletro regge la falce fienaria con cui trancia teste, mani, piedi su un prato nero. Nei cosiddetti Tarocchi di Carlo VI, esso procede a cavallo avvolto in un sudario: la terribile immagine proviene probabilmente dall’Apocalisse di San Giovanni che descrive la morte come uno dei quattro cavalieri, ma appare anche nelle Minchiate fiorentine e nei Tarocchi esoterici di Rider-Waite.
I Greci identificavano il dio della morte con Thanatos, figlio della notte e fratello del sonno, solitamente rappresentato come un giovane alato. Presso gli antichi infatti le immagini di questa sinistra divinità non erano necessariamente lugubri: a volte essa era una figura con la falce, a volte un uomo con la pelle scura, o una vecchia alata, più raramente uno scheletro o un animale, come il cavallo e il cane. L’atteggiamento di Greci e Latini di fronte al fato si può riassumere nel motto “carpe diem”: in taluni casi lo scheletro era associato a scene che ricordavano il piacere sensuale e la gioia, invitando al godimento della vita prima che fosse troppo tardi: Petronio Arbitro racconta nel suo Satyricon, che al festino di Trimalcione fu presentato ai commensali un burattino in forma di scheletro d’argento che, contorcendosi, doveva farli divertire e invitarli a vivere più intensamente gli istanti effimeri del piacere.
L’iconografia della morte che è a noi familiare si diffuse in occidente in epoca assai tarda, a partire dal Trecento. La comparsa di questo simbolo sinistro è da mettersi in relazione con la terribile epidemia di peste che, verso la metà del secolo, falciò in Europa milioni di vittime chiosando tragicamente la fine del medio evo e lasciando negli esseri umani un senso penoso di precarietà. Da questa data si moltiplicarono un po’ dappertutto nell’arte italiana, francese, tedesca, immagini di cadaveri putrefatti, di scheletri, di mummie sinistramente realistiche. Tali raffigurazioni presentano paralleli e affinità con quelle buddhiste e orientali in genere. Il loro significato, assai discosto dal godimento epicureo degli antichi, va ricercato in un ideale di ascetismo che disprezzava la vita ed era ostile alla bellezza e alla gioia dei sensi; si trattava di un pesante avvertimento sintetizzato nel motto latino “memento mori”, “ricordati che devi morire”, nei riguardi di chi, superficialmente e ostinatamente, rincorreva le terrene vanità.
Lo scheletro fatale poteva essere appiedato o a cavallo. In altre rappresentazioni essa era alla guida di un carro trainato da buoi e cavalli, in una sinistra parodia del trionfo. Suoi attributi erano la spada, l’arco e le frecce o la falce fienaria dal lungo manico di legno. La falce era anticamente associata al dio Cronos/Saturno, ossia il Tempo, come strumento cieco che recide tutto ciò che vive. Nell’iconografia cristiana questo attrezzo compare a partire dal XV secolo, per indicare l’inesorabilità della grande eguagliatrice. Morte e mietitura erano collegate fin dall’antichità; quest’ultima era infatti vista come taglio del gambo, considerato il cordone ombelicale che legava il grano alla madre terra. Anche oggi l’immagine della mietitura allude spesso nei sogni alla vicinanza della morte. Alla morte del grano era associata anche l’idea della rinascita; presso gli Egizi infatti chicchi di grano e semi di fiori , metafora del corpo che risorge, erano seminati all’interno delle bende della mummia o in un recipiente accanto al cadavere. Il loro germogliare era segno della resurrezione avvenuta. Questa bellissima simbologia è contenuta anche nel Vangelo, dove Cristo afferma che “se il chicco di frumento muore porta molto frutto” . E’ qui espressa l’idea della morte non come fine ineluttabile, ma come cambiamento di stato e inizio di una nuova vita.
Nell’arte europea della fine del medio evo era invece assai vivo il senso terribile della distruzione del corpo fisico. Sul piano iconografico si sviluppò in tre soggetti principali: l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, la Danza macabra, il Trionfo della Morte. Il primo narrava di tre giovani principi che, tornando dalla caccia col falcone, si imbatterono in tre cadaveri, ognuno in un diverso stato di decomposizione. Rizzandosi nelle loro bare, i defunti lanciarono ai viventi un terribile monito: “eravamo come voi siete, sarete quelli che siamo”. Il tema, già diffuso nella letteratura francese del XIII secolo, è la trasposizione cristiana di un argomento caro al buddhismo. Il giovane principe Siddharta infatti, incontrò un giorno un vecchio, un malato, un eremita e un cadavere; la visione della miseria umana lo portò alla determinazione di abbandonare il mondo e di diventare un illuminato, il Buddha. L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti fu sviluppato in immagini per la prima volta in Italia; tra queste la più celebre si trova nel “Trionfo della morte” splendido affresco di attribuzione controversa, conservato nel Camposanto monumentale di Pisa. Spesso queste immagini di corpi in disfacimento erano accompagnate da sinistre scritte che ammonivano il passante: “come possiamo non pensare che il nostro corpo sarà divorato dai cani?”; o ancora: “tu ben presto sarai come noi, un cadavere fetido, pasto dei vermi”.
Verso l’inizio del XV secolo si diffuse il tema della Danza macabra, anch’esso di derivazione orientale, precisamente tibetana. Faceva parte, in origine, di lugubri spettacoli teatrali tenuti in occasione di cerimonie buddhiste in cui gli attori avevano maschere a forma di cranio e abiti decorati di ossa. L’immagine della Danza macabra attecchì in special modo nell’Europa del nord (in Germania era detta Totentanz) e più raramente nel nord Italia. Il ballo accomunava in uno sbatter d’ossa scheletri e viventi, ricchi e poveri, laici e prelati, dame e cavalieri, papi e imperatori. L’idea era satirica, quasi una forma di sberleffo dipinto: la morte infatti beneficava gli umili e gli straccioni che avevano sofferto in vita e condannava senza pietà chi aveva rincorso la fama e il potere, accaparrando voracemente ricchezze e onori. Il tema della Danza macabra era destinato a decorare i chiostri, che erano usati anche come luogo di sepoltura; il dipinto più antico di cui si abbia memoria, ora distrutto, si trovava nel cimitero degli Innocenti a Parigi (1424).
In Italia questo soggetto si tramutò in quello del Trionfo della morte, una variante meno ironica e più solenne, derivata dai Trionfi del Petrarca. Forse l’esempio più arcaico si trova affrescato nel Sacro Speco di Subiaco (metà del XIV secolo); il tema della morte vincitrice era a volte accompagnata da versi come la ballata che della Danza macabra affrescata sulla chiesa di San Vigilio a Pinzolo da Simone Baschenis, nel 1539:” Io sont la morte che porto corona/sonte signora de ognia persona/et cossi sono fiera forte et dura/che trapaso le porte et ultra le mura”. Altri splendidi dipinti posteriori sono quelli di palazzo Sclafani, ora alla Galleria Nazionale di Palermo (metà del XV secolo) e più tardi, di Lorenzo Costa in San Giacomo Maggiore a Bologna (1489).
L'interpretazione divinatoria di questa carta si deve agli esoterici, che lungi dall'averne fatta una lama di malaugurio, la collegarono piuttosto con il simbolo della falce e della mietitura; operazione di recisione indispensabile per preparare un nuovo ciclo. Il senso profondo dell'Arcano può collegarsi con le cerimonie misteriche di iniziazione in cui l'adepto doveva sottoporsi a prove, a volte assai crudeli, che simboleggiavano la morte della sua vecchia identità e la nascita di una nuova personalità.

giovedì 2 settembre 2010

La Temperanza

Nel Tarocco Visconti la Temperanza è rappresentata  da una donna che travasa liquido da un vaso all’atro. L’azione del temperare per il cristianesimo, era in particolare riferita al domare eccessi ed istinti; si pensava che questa virtù fosse necessaria per frenare la sensualità e i piaceri carnali. Nelle molte raffigurazioni plastiche e pittoriche la Temperanza poteva essere connessa con altre virtù sussidiarie, secondo i dettami stabiliti da San Tommaso d’Aquino; pertanto la si trova frequentemente a fianco della Castità, della Verginità, dell’Umiltà.
Nel Tarocco di Marsiglia la donna è diventata un angelo con grandi ali che indossa una veste bipartita in due zone di colore, blu e rosso; pure blu e rosse sono le anfore che regge in mano. Gli angeli sono figure soprannaturali che si ritrovano in tutte le religioni: esseri alati sono presenti nei miti Egizi, Assiro-Babilonesi e nelle cosmogonie del medio ed estremo oriente, spesso col ruolo di messaggeri; nella loro posizione intermedia tra cielo e terra ben incarnano il carattere di mediazione che è stato attribuito alla Temperanza.
Come la Giustizia e la Forza, la Temperanza è una delle tre Virtù cardinali che fanno parte del mazzo dei Tarocchi. La parola è latina e può derivare sia dal verbo “tempus” che da “tempes”, con significato originario di “tagliare” al fine di mescolare e armonizzare. Questa bella virtù, al giorno d’oggi un po’ fuori moda, significa dunque la capacità di controllare gli appetiti naturali, mitigando gli eccessi. Essa era tenuta in grande onore fin dalle epoche più antiche; Platone ad esempio la cita esplicitamente nel “Menone”, in cui fa dire a Socrate che l’uomo e la donna devono essere guidati dalla giustizia e dalla temperanza nel governo della città e della casa, loro reciproche competenze. Per molti autori inoltre, la temperanza si identificava con la donna; tale idea è arrivata fino al nostro rinascimento. Lo scrittore greco Plutarco (46-125 circa d.C.) afferma che nel matrimonio la moglie deve adattarsi in modo quasi mimetico alla vita del marito; egli paragona ciò all’azione di mescolare l’acqua col vino. Tale immagine è stata assorbita dall’iconografia della Temperanza, che si presenta comunemente nel Medioevo e nel Rinascimento come una figura che versa liquido da un’anfora all’altra. Anche nella letteratura cristiana di tipo didattico e pastorale tale virtù era caldamente consigliata alla donna. Un autore medievale, Egidio Romano, suggerisce ad esempio alle monache di rinunciare a trucchi e ornamenti per dipingersi, vestirsi e adornarsi esclusivamente con qualità morali come “gli orecchini dell’obbedienza, il lino della castità, la cintura della disciplina, il belletto della buona fama, l’unguento della temperanza”.
Oltre alle due anfore altri attributi di questa virtù furono il freno, la clessidra, la spada. Gli ultimi due oggetti compaiono ad esempio nell’Allegoria del buon governo nel Palazzo Pubblico di Siena e nella Cappella degli Scrovegni a Padova. L’orologio è in rapporto con l’azione del misurare, la spada con quella del tagliare.
Il Tarocco marsigliese si presta ad un’interpretazione esoterica con molti riferimenti di tipo mistico e alchemico, come è sottolineato dal Wirth nella sua opera. L’alchimia ha una lunga storia che affonda le sue radici nell’antico Egitto o addirittura in Cina; la parola deriva dal sostantivo arabo “al-kìmiya” che a sua volta discende probabilmente dal greco “chyma” che sta a significare la fusione e depurazione dei metalli. All’inizio dell’era cristiana era largamente praticata, specie nell’Egitto alessandrino.. In Europa l’alchimia conobbe una notevole fortuna dal IX fino alla metà del XVI secolo; essa annoverò tra i suoi cultori uomini di potere e di cultura come Ruggero Bacone e San Tommaso d’Aquino. L’idea di base era la preparazione della pietra filosofale, un minerale dotato di proprietà miracolose, tra cui quella di trasformare i metalli vili in oro; per ottenerla occorreva distillare a lungo la materia base, formata da miscele metalliche, utilizzando un recipiente chiuso, l’Atanor. Lo psichiatra Carl Gustav Jung ha studiato lungamente i testi alchemici e nel suo saggio “Psicologia e alchimia” (1944) ha dimostrato che la ricerca della pietra filosofale riguarda più il nucleo divino presente negli esseri umani, che la rincorsa della ricchezza e del potere esteriori. L’oro promesso dalla magica pietra è, secondo Jung, assai più di tipo spirituale che non fisico, e le astruse allegorie degli alchimisti sarebbero da intendere in linguaggio psicologico alla stessa stregua delle immagini dei sogni.
La pietra filosofale era chiamata anche “rebis”, “essere doppio” o “androgino ermetico”; androgino è un unico essere in cui convivono attributi maschili e femminili. L’angelo o, come lo chiama Wirth, il “Genio della Temperanza”, sarebbe collegabile con questo tipo di figura mitica. L’ermafrodita era anticamente simbolo di divinità, pienezza e totalità. Secondo il cristianesimo, diventare “uno”, nel senso di abolire la distinzione maschio/femmina, è il fine della vita umana e nel Nuovo Testamento si allude frequentemente a questa unità.
Proseguendo nella spiegazione esoterica dell’allegoria, occorre analizzare il significato dell’anfora e dell’acqua. Il vaso era presente come simbolo mistico fin dalla filosofia greca e successivamente nei poemi relativi al Santo Graal, scritti a partire  dalla fine del XII secolo. Il Graal sarebbe stata la coppa che avrebbe raccolto il sangue di Cristo; era un oggetto sovrannaturale dotato delle virtù del nutrimento, dell’illuminazione, dell’invincibilità. Era associabile anche al “vaso ermetico” dell’alchimia, dove si fondevano gli elementi della “grande opera”, e al calice della messa, dove vengono mescolati assieme acqua e vino, per rappresentare l’aspetto umano e spirituale di Cristo.
La simbologia dell’acqua, ricchissima, può forse sintetizzarsi in tre temi fondamentali: è essere sorgente di vita, ha il potere di purificare e capacità di rigenerare; tutte le culture hanno approfondito il significato del prezioso elemento nelle sue infinite variazioni e combinazioni allegoriche. Il Wirth vede nell’acqua versata dall’angelo della Temperanza un simbolo di purificazione iniziatica. Il battesimo cristiano è un ulteriore esempio in tal senso; il rituale dell’aspersione e dell’immersione è tuttavia presente presso altri popoli; l’idea del lavaggio purificatorio della materia era ripresa inoltre dall’alchimia.
Per tornare alla figura della Temperanza, il versamento del liquido rappresenterebbe il continuo fluire della vita, il movimento incessante dell’energia; l’anfora che lo contiene sarebbe l’agente riparatore fonte di rigenerazione; il travaso dei liquidi è una sorta di alchimia psichica in cui l’individuo arriva alla purificazione.
Il XIV, numero dell’Arcano, è legato al movimento perpetuo, ma può essere anche simbolo di pericolo. E’ anche il numero dell’incarnazione; secondo gli antichi Greci simboleggiava la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro (metempsicosi) e più specificatamente indicava il momento in cui l’anima rinasceva nel mondo.

Il Diavolo

Nessun Tarocco miniato ha conservato il Trionfo raffigurante il Diavolo, la cui iconografia più antica relativa alle carte è tramandata solo da mazzi stampati con tecnica xilografica. Una di queste incisioni, alquanto rozza, rappresenta una figura che regge un forcone, dotata di testa cornuta, ali di pipistrello, zampe artigliate e un volto umano sporgente dal ventre. In un altro Tarocco della fine del XV secolo, il Diavolo è una figura pelosa con forcone, corna ed estremità di rapace; questi attributi, relativi all’azione di ghermire o infilzare, simboleggiano la capacità di catturare l’animo umano. Nel Tarocco marsigliese esso è rappresentato in piedi, ritto su di un piedistallo; ha le corna ramificate, ali di pipistrello, seni femminili e zampe artigliate. Al piedistallo sono legati con una corda due diavoletti.
L’iconografia di questo Tarocco è collegata alla vasta schiera dei demoni medievali, ma la storia dell’immagine è assai più arcaica e complessa. Creature mostruose e demoniache sono infatti presenti in tutta l’arte antica; esseri ibridi, formati da vari animali assemblati a membra umane, si ritrovano sia nell’arte dell’antico Egitto che in quella della Mesopotamia, dove il malvagio Pazuzu, spirito apportatore di malaria, è assai vicino alla raffigurazione occidentale del Diavolo. L’arte greca e romana, proiettata verso la bellezza, accolse solo a margine alcune figure grottesche come quella della Medusa, dalla testa irta di serpenti e la lingua pendente dalla bocca spalancata e ghignante. I demoni furono invece accolti nel mondo barbarico e proliferarono in quello occidentale dopo l’avvento del cristianesimo.
In origine la Bibbia non dà ampio spazio alla figura del Diavolo che è ricordato nel testo della Sapienza del Vecchio Testamento e nel libro di Giobbe. Il serpente della Genesi, che causò la cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre, verrà identificato col Demonio solo in epoca tarda. Nel Vangelo di Matteo Satana tenta Gesù dopo 40 giorni di digiuno nel deserto; assieme ai suoi accoliti causa inoltre varie malattie agli uomini rendendoli ciechi, sordi, pazzi, muti. Anche la descrizione fisica del Maligno nella Bibbia è piuttosto vaga. Sembra che lo sviluppo antropomorfico, che portò ad umanizzare il Diavolo, sia dovuto al Talmud, il testo fondamentale della pratica religiosa ebraica; secondo esso il serpente dell’Eden aveva mani e piedi, che perdette come punizione per la sua opera di corruzione, con la conseguente condanna di strisciare in eterno.
Durante il Medioevo europeo si ebbe la massima proliferazione delle immagini demoniache, che si moltiplicarono negli affreschi, nelle sculture delle cattedrali e nei paramenti liturgici. All’inizio il Demonio fu rappresentato prevalentemente come serpente dalla testa umana, poi come leone o drago, poi come figura completamente umana. In un affresco del Camposanto di Pisa egli è, tra l’altro, una bella donna vestita con abiti alla moda che seduce un eremita nella sua grotta; solo le estremità artigliate che spuntano dal lungo mantello tradiscono la sua vera natura. In seguito si sviluppò un costante processo di degradazione fisica legato all’idea elementare che se Satana era la somma di tutti i peccati doveva esserlo anche di tutte le forme più repellenti; dapprima egli acquisì il carattere dell’uomo-capra; suoi attributi furono le orecchie a punta, le zampe pelose e munite di zoccoli, la faccia contorta in un ghigno osceno. Tale immagine era mutuata da quella del dio Pan, il satiro della mitologia greca che atterriva i viandanti durante le ore meridiane con i suoi urli raccapriccianti (da cui la parola “panico”) e che rincorreva le ninfe per possederle in modo selvaggio. Egli era fin dall’antichità simbolo di lussuria; anche in seguito la sessualità fu considerata dalla Chiesa uno dei peccati peggiori in cui l’uomo potesse incorrere. Alle mostruosità caprine si aggiunsero poi la gastrocefalia, cioè una testa supplementare sul ventre, ma anche sulle cosce e sul posteriore. In molte rappresentazioni medievali dell’Inferno, un enorme Satana divora un dannato e ne espelle un altro da una bocca sul basso ventre; l’idea dell’alimentazione demoniaca è arricchita altre volte da dettagli grotteschi, come figure di dannati infilzati sullo spiedo e arrostiti come capponi. A proposito della bocca supplementare e del cannibalismo, esso potrebbe rappresentare lo spirito svenduto ai bassi istinti; il simbolismo del “mangiare” inoltre avrebbe lo stesso significato di “possedere”.
Testi latini come la “Storia naturale” di Plinio, con le sue descrizioni di creature bizzarre, furono nel medio evo una continua fonte di ispirazione per inventare demoni ed esseri fantastici; molti di questi erano anche di origine orientale, come le sirene, i grifoni, le arpie. Della stessa provenienza erano pure le ali di pipistrello, che furono introdotte in Europa dopo il XIII secolo; esse erano legate dall’immagine del drago, che derivava a sua volta dal Lung-Wang, il grande serpente cinese munito di zampe, benefico dispensatore di pioggia e vita; arrivate in Europa si trasformarono in ulteriore motivo di orrore. Dante stesso le descrive nel XXXIV canto dell’Inferno: ”Sotto ciascuna uscivan due grand’ali/quanto si convenia a tanto uccello/Vele di mar io non vidi mai cotali/Non avean penne, ma di vipistrello/eran lor modo; e quelle svolazzava/sì che tre venti si movean da ello”. Accanto ai suddetti attributi fisici la fantasia medievale si sbizzarrì alla ricerca di particolari raccapriccianti: frequentissimi furono i demoni con flaccidi seni di donna; nell’arte del nord Europa comparirono diavoli arborescenti fatti di tronchi e di foglie; oppure pieni di pustole e bitorzoli; o con teste di cane, o con proboscide e orecchie smisurate come ali. Parecchie tra queste immagini giunsero a noi dall’Asia dopo il Duecento, quando vivaci contatti commerciali si stabilirono tra i due continenti, e monaci e mercanti cominciarono a stendere dettagliate e a volte fantasiose relazioni di viaggio spesso corredate da illustrazioni. Per peggiorare ulteriormente la sua presenza, il Diavolo non esitava inoltre a compiere gesti osceni o emettere odori repellenti. Numerose testimonianze attestano quest’abitudine; nel XIII secolo ad esempio Tommaso Cantipratense, monaco domenicano, ebbe a vedere il diavolo in figura di prete che: ”nudato inguine, ex tento asinino veretro velut ad urinam faciendam”.
L’idea della tentazione è al centro del mito diabolico; il Demonio infatti induce gli uomini a peccare sollecitando in loro due grandi passioni: quella per il sesso e quella per il potere, che allontanano l’uomo dall’unione con Dio. In linguaggio psicologico egli rappresenterebbe le forze distruttive che turbano e indeboliscono la coscienza facendola regredire. La parola “diavolo”, di origine greca, riassume l’idea di scissione: essa infatti significa “colui che si mette in mezzo”, e quindi l’ostacolo, la barriera. Uguale significato ha il termine “Satana”, derivazione della parola semitica “Satan”, che vuol dire “opporsi”. Ma i nomi di questa creatura sono infiniti come infinite sono le sue schiere. Ecco alcuni appellativi che a volte indicano lui stesso, a volte i suoi luogotenenti più fidati: Lucifero, Demonio, Belzebù, Belial, Behemot, Bestia, Astarotte, Asmodeo, Leviatan, Azazel, Abadon, Mefistofele, Grande Becco, Angelo delle tenebre, Maligno, Seduttore, Scimmia di Dio, Lucibello, Macometto,  Farfarello, Berlicche, Puzzimene, Mala cosa, Ticchi-tacchi ecc.
Oswald Wirth ha dato a questo Arcano un’interpretazione tutt’altro che negativa, cercando in parte di riscattarlo e di superare la sua immagine di grottesca caricatura ereditata dal medio evo. Egli lo considera il principe del mondo materiale, una sorta di agente creatore che sta alla base di tutte le cose; mentre Dio rappresenta l’unità il Diavolo presiede a tutto ciò che tende a differenziarsi. Esso è legato al corpo e all’istinto di conservazione e con lui tutti gli uomini devono fare i conti dal momento stesso in cui vengono al mondo. Wirth lo definisce “serbatoio della vitalità di tutti gli esseri”, fonte di energie profonde e inestinguibili; i diavoletti sarebbero le polarizzazioni positive e negative del fluido universale.
Il numero del Tarocco è il XV, solitamente considerato infausto; nel Medioevo era associato al sabba e alle streghe. Ha significato legato all’occulto, alla magia.

La Torre

L’Arcano rappresentante la Torre, nel mazzo Visconti è andato perduto. Dobbiamo affidarci ai Tarocchi di Carlo VI per tentarne un’ipotetica ricostruzione; in essi la carta raffigura una Torre colpita da una lingua di fuoco proveniente dal cielo; i muri si sgretolano tra le fiamme, mentre grosse pietre rovinano a terra. Nei Tarocchi di Marsiglia l’iconografia si modifica: il fuoco celeste scoperchia la costruzione; dischetti colorati, probabilmente pietre o grandine, piovono dal cielo mentre due personaggi precipitano al suolo, rovinando assieme all’edificio.
Varie sono le denominazioni con cui è ricordato questo Arcano; la più antica lista di Trionfi a noi nota, il “Sermones de ludo cum aliis”, della fine del Quattrocento, lo chiama “Sagitta”, ossia “Saetta”, con allusione al fulmine rappresentato; altri termini piuttosto discordanti, sono “Inferno”, “Casa del Diavolo”, “Casa dei Dannati”, “Casa di Plutone”. Significati decisamente negativi, come si vede, che contrastano con la denominazione “Casa di Dio” (in francese “Maison de Dieu”) assegnatole a partire dal XVII secolo. Ma perché questa strana ambivalenza? L’idea alla base del Tarocco è l’ira divina che colpisce senza pietà là dove l’uomo ha peccato; il luogo della colpa, viene distrutto dall’intervento di Dio. Ma quest’azione punitiva ha però anche uno scopo di purificazione; dopo di essa il posto sarà nuovamente consacrato, perché vi si è manifestata la divinità: la Casa del Diavolo si trasformerà in Casa di Dio.
Fin dall’antichità tutto ciò che proveniva dal cielo acquistava carattere magico o sacrale: il fulmine era un attributo di Zeus, ma anche del dio indiano Indra. Nell’Eneide Virgilio lo descrive come un dardo infiammato da cui si dipartono tre raggi di grandine, tre di pioggia, tre di fuoco, assieme a tuono e lampi. Il re degli dei lo usava per punire chi gli si ribellava e per primo lo sperimentò sul padre Crono e sui Titani. Lo scrittore greco Artemidoro di Daldi nel suo trattato sui sogni dice che i fuochi provenienti dal cielo preannunciano minacce di vario genere, invasioni, sterilità, carestia. Secondo lui il fulmine onirico era un buon segno solo per i poveri in quanto, come il fuoco distrugge la materia, così avrebbe distrutto la loro indigenza; i ricchi, per lo stesso motivo, avevano tutto da perderci. Per gli antichi cinesi, la rottura dell’equilibrio tra Yin e Yang, le forze che governavano il creato, provocava tuono e fulmini. Nell’I Ching l'esagramma “Chen”, “Il tuono”, parla di scuotimento e spavento “per 100 miglia” al manifestarsi delle potenti forze della natura; nel complesso positivo, esso è associato alla primavera; i commenti aggiungono che in tale stagione lo scatenarsi delle forze naturali promette fertili sviluppi. Questo duplice aspetto terrifico e benefico del fulmine ricorre nei miti di molti popoli antichi che sovente credevano che gli alberi e i luoghi colpiti dal fulmine fossero dotati di poteri magici; Greci e Romani addirittura li recintavano, vi costruivano altari, vi celebravano sacrifici. In ambito celtico la quercia era messa in relazione col fuoco celeste, forse perché ne era facilmente colpita. Anticamente si credeva che le piante parassite di quest’albero, come il vischio, fossero prodotte dal fulmine e dotate di potere magico; i Druidi, gli antichi sacerdoti Celti, lo raccoglievano con un falcetto d’oro per impadronirsi della sua forza. La superstizione è rimasta fino al secolo scorso: in Germania, ad esempio, fino a non molto tempo fa, le piante che crescevano sulle querce si chiamavano “scope del fulmine”. Queste credenze si ritrovano in tutto il mondo. Nell’America del sud si pensava che il fulmine donasse fertilità o proprietà magiche; presso gli Incas, coloro che praticavano la divinazione affermavano di esserne stati colpiti.
Nel Tarocco di Marsiglia il fuoco celeste produce pietre o grandine, un vero e proprio flagello. Le dimensioni dei dischetti colorati possono riferirsi alle une o alle altre; in molti testi antichi la grandine è assimilata a sassi che piovono dal cielo. Il paragone non è esagerato; infatti, benché raramente i chicchi di grandine superino i 2 cm di diametro, le cronache meteorologiche parlano, anche in tempi recenti, di chicchi grossi come pompelmi o addirittura come palloni da basket. Una grandinata celebre in tal senso si è verificata a Dallas, nel Texas, l’8 maggio 1926, quando caddero dal cielo, provocando immaginabili disastri, pezzi di ghiaccio che dovevano pesare fino a 6/7 kg l’uno. Non si fa fatica a pensare che, di fronte a  un simile flagello, gli antichi lo credessero causato dalla collera divina; la grandine è infatti tra le piaghe con cui Dio colpì l’Egitto per convincere il Faraone a liberare il popolo ebraico. Essa è citata varie volte nella Bibbia come una manifestazione del potere divino per punire i peccatori e i nemici del popolo d’Israele. Nell’Apocalisse gli uomini sono travolti da “grandine grossa come un talento”; il talento era una misura di peso variante dai 26 ai 40 kg a seconda delle regioni; la cifra, volutamente iperbolica, vuole riferirsi alla terribile collera distruttiva di Dio.
Non solo la grandine poteva piovere dal cielo sugli uomini peccatori, ma anche sangue, zolfo, insetti, pietre. Gli antichi conoscevano le “pietre del fulmine e della pioggia”, entrambe di origine meteoritica. Provenendo dal cielo, esse erano cariche di potere magico ed erano variamente adorate o usate a scopo propiziatorio. Anche le punte di frecce e le asce di pietra levigata erano simboli del fulmine presso varie popolazioni primitive e dotate del potere di attirarlo o allontanarlo. Molti di questi sassi erano collegati con riti di fertilità; presso i Fang del Gabon, se una pietra del fulmine era posta tra le gambe di una partoriente, la poteva aiutare ad espellere il bambino; in altri casi i magici sassi erano invocati per avere figli e per assicurarsi la prosperità. Gli abitanti del Messico precolombiano li chiamavano “oro della pioggia” e li conservavano con tutti gli onori in una cassetta appesa al totem del villaggio. Infine una celeberrima pietra celeste è la Pietra Nera della Ka’ba alla Mecca, definita “la mano destra di Dio”, su cui i fedeli giurano eterna fedeltà alle dottrine dell’Islam.
Nel Tarocco marsigliese il tetto che l’ira divina fa crollare ha forma di corona regale, trasparente allusione al simbolo del potere umano per eccellenza, travolto dal potere ben più grande di Dio; la costruzione evoca la biblica torre di Babele, in lingua babilonese “Bab Ilo”, “la porta di Dio”. La narrazione, contenuta nella Genesi, racconta come Dio punì gli uomini, che avevano costruito una superba torre che raggiungeva il cielo, confondendo il loro linguaggio. Nella storia biblica l’Eterno si manifesta come fattore di divisione; la punizione per l’orgogliosa pretesa umana di unire le proprie forze e affrontare il cielo è la diaspora che disperderà uomini e culture diverse sulla faccia della terra. Storicamente la torre di Babele è assimilabile alla Ziggurat, il tempio-torre mesopotamico a terrazze sovrapposte, che poteva anche raggiungere i 100 metri d’altezza.
Come edificio, la torre era assai comune anche nel panorama medievale italiano e ne restano tracce cospicue nelle città e nelle campagne della penisola. Presente anche in araldica e in molti stemmi nobiliari, era emblema di antica e importante nobiltà e di dominio feudale. Poteva essere casa ma anche fortilizio; molti statuti cittadini proibivano di lanciare da questi edifici sassi o altro materiale, specie contro il palazzo del Comune o la Curia, pena la demolizione della torre stessa; come si vede anche nella realtà della storia umana l’orgogliosa protervia rappresentata da questo edificio poteva essere drasticamente ridimensionata.
L’aspirazione a un raggiungimento titanico al di là delle forze umane è combattuto anche in molte religioni. Nel Vecchio Testamento è detto: “tutte le valli dovranno essere innalzate e tutte le montagne e colline dovranno essere abbassate, e ciò che è diseguale dovrà diventare piano, e ciò che è gibboso diventare liscio” (Isaia 40,4). Cristo nel Vangelo rammenta che: ”Chi si innalza sarà abbassato. Chi si abbassa da solo dovrà essere innalzato”. Così l’I Ching, di ispirazione taoista, all'esagramma N.15, “La modestia”, ricorda che: “il nobile diminuisce quello che è troppo ed aumenta quello che è poco. Egli pondera le cose e le rende uguali”.
Nell’interpretazione esoterica, il Wirth associa la Torre al simbolo zodiacale dello Scorpione in cui le energie sotterranee emergono aggressivamente per distruggere ciò che è creato. La violenza e la passionalità sono caratteristiche dell’individuo che ha il sole in questo segno; esso rappresenta anche la trasformazione attraverso la putrefazione della materia; in tal senso può essere assimilato all’opera al nero del processo alchimistico.
Il numero XVI, associato alla carta, ne riflette la simbologia nefasta di crollo e distruzione.

La Stella

Nei mazzi più antichi alcuni sapienti osservano una stella alta nel cielo: sono i Re Magi al cospetto della cometa. Nei Tarocchi Visconti invece una giovane donna in abito classicheggiante regge una stella nella mano sinistra, sollevata verso l’alto. I Tarocchi marsigliesi presentano l’iconografia più significativa: in un paesaggio glabro da cui spuntano due alberelli, una fanciulla nuda e inginocchiata versa a terra l’acqua contenuta in due anfore; sotto al suo piede si allarga un laghetto azzurro; sullo sfondo un uccello è posato in cima a un albero. Nel cielo sopra la giovane splende un grande astro a otto punte, circondato da sette più piccoli. Questa immagine ha affascinato gli autori delle carte esoteriche, che l’hanno riproposta senza sostanziali variazioni.
Nella serie completa degli Arcani, la Stella precede due carte significative, la Luna e il Sole. Una triade astrale domina l’ultima parte dei Trionfi; la cosa non è certamente insolita se si pensa all’importanza che l’astrologia rivestiva per gli antichi. I popoli della Mesopotamia furono i primi a studiare gli astri e a postulare che influenzassero il destino umano. A circa cinque secoli prima di Cristo, risalgono la divisione zodiacale in 12 segni, e le prime associazioni tra la posizione dei corpi celesti e il momento individuale della nascita. Secondo i Caldei le stelle erano altrettante divinità che governavano il destino umano portando benessere o sciagura; tuttavia furono gli Egiziani che determinarono le basi “scientifiche” dell’astrologia, su cui poggiano tuttora le interpretazioni moderne. L’arte di osservare il firmamento si sviluppò anche nel mondo classico; Omero descrive ad esempio la rappresentazione del cielo e delle costellazioni nella decorazione a sbalzo sullo scudo di Achille realizzato da Efesto. Gli stessi imperatori romani favorirono questa scienza; tra i più famosi studiosi antichi fu Claudio Tolomeo (II secolo d.C.) geografo, astronomo, matematico, e a cui si deve la teoria del cielo che è tuttora alla base dell’astrologia moderna. Lo zodiaco, i pianeti, le stelle fisse, passarono dalla cultura pagana a quella cristiana e le loro immagini si diffusero nelle chiese e nei palazzi europei. Dal medio evo al rinascimento venne realizzata in Italia una notevole serie di cicli astrologici dipinti o scolpiti; essi si dispiegarono con tipologie differenziate: dai calendari coi mesi, associati al corrispondente segno zodiacale, ai cicli affrescati raffiguranti oroscopi. Due esempi per tutti: le sculture di Benedetto Antelami nel battistero del duomo di Parma (XIII secolo) e la mappa celeste fatta eseguire da Cosimo de’ Medici nella Sacrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze, che raffigura il cielo della città come si presentava il 4 luglio 1442.
Nelle opere d’arte antica sole e luna sono frequentemente associati e in taluni casi assimilati a Cristo e alla Vergine; diffuso è anche il motivo della stella accanto ai due luminari. In un bassorilievo proveniente da Susa (1500 a.C.) il re babilonese Melisipak presenta la figlia alla dea Nana mentre sulle figure campeggiano tre astri; la stella è a otto punte come quella del Tarocco marsigliese. Per gli antichi essa poteva anche segnalare la venuta di un essere superiore ed era simbolo di immortalità. Nell’antico Egitto ad esempio, l’anima del defunto, detta Ba, nasceva sotto forma di stella o di uccello. In Cina e all’epoca dell’impero romano gli astrologi, alla morte di un personaggio importante, ritenevano che la sua anima tornasse in cielo trasformandosi in una stella. I latini pensavano che gli astri potessero essere una guida preziosa: lo storico Varrone narra ad esempio che Enea fu accompagnato nelle sue peregrinazioni da una stella che scomparve quando giunse nelle terre dove si sarebbe compiuto il suo destino. In questo contesto simbolico rientra la cometa di Betlemme, annunciatrice della nascita di Gesù e guida dei Magi.
Le prime versioni del Tarocco sembrerebbero aderire a questo significato, ma in seguito una figura femminile sostituisce i tre sapienti. Gli esoterici interpretano questa seconda immagine come la dea Venere; Venere era anche uno dei sette astri conosciuti dagli antichi. 
Era la stella del mattino, chiamata dai Babilonesi “chiara fiaccola” o “diamante scintillante nel sole”. Per gli Assiri la dea Ishtar aveva il dominio del pianeta; essa però possedeva anche qualità lunari e per molto tempo regnò grande confusione nelle attribuzioni tra Luna e Venere. I Babilonesi chiamavano quest’ultima Astarte, i Fenici invece l’adoravano col nome di Astoreth; l’etimologia del nome significa appunto “Stella”. Astarte era, in una delle sue personificazioni, l’incantatrice, la dea dell’amore sensuale. Diventata nella cultura occidentale Venere/Afrodite, assunse oltre a questo attributo, significati più vasti e complessi. In astrologia ad esempio presiede all’affettività, oltre che alla sensualità, ed ha la proprietà di attirare l’una verso l’altra tutte le creature; il pianeta stabilisce un principio d’amorosa comunione che è alla base del fiorire della vita. Rappresenta anche le virtù oblative dell’io, l’altruismo e la dedizione. Si riferisce inoltre alla bellezza, all’amore per la natura, al temperamento creativo artistico.
Sull’onda di questi significati si muove anche l’interpretazione esoterica di Wirth. Il dono di Venere rappresentato nella lama sarebbe l’acqua che la giovane donne versa sulla terra arida; è un fluido di rinascita che fa fiorire la vegetazione e tiene in vita la natura.
Discordante è l’interpretazione da parte dei vari autori, delle otto stelle che compaiono nel cielo e dell’uccello appollaiato sull’albero: per alcuni è un ibis, per altri una colomba. La stella centrale rappresenterebbe Venere mentre le circostanti sarebbero le Pleiadi, costellazione nota ai Greci; il suo sorgere segnalava ai naviganti l’arrivo del tempo favorevole per salpare in mare.
Il XVII, associato alla carta, nelle speculazioni degli antichi Greci era formato dal rapporto tra otto e il nove; questi due numeri erano legati alle teorie musicali antiche e all’armonia delle sfere planetarie. I mistici Shiiti lo veneravano come canone dell’equilibrio di tutte le cose. I Romani invece consideravano il XVII infausto, perché le lettere che lo compongono, cambiate di ordine, formano la parola “VIXI”, “ho vissuto”, ossia sono morto.

La Luna

Seconda lama della serie degli astri, la Luna si presenta nel Tarocco di Carlo VI e nelle Minchiate con l’immagine di una coppia di astrologi che misura il pianeta col compasso. Nel Tarocco Visconti l’iconografia ha invece caratteristiche classicheggianti: una fanciulla bionda, vestita con un abito alla greca, regge la falce lunare con la mano destra. Più complesso è il Tarocco di Marsiglia; una luna rotonda e raggiata, dentro a cui è inserito un profilo di donna, splende nel cielo; gocce colorate partono dalla terra in senso inverso, dirette all’astro; sotto di esso si stende un arido paesaggio dove su piani differenti sono situati: uno stagno dentro cui nuota un gambero, due cani che ululano, due torri. Questa lama non è di facile interpretazione; i cani sono, come si è visto, associati al mito greco delle dee lunari; il gambero è legato al Cancro, quarto segno zodiacale, dominato dalla luna. L’animale, che vive nell’acqua dentro ad una corazza protettiva, è simbolo di gestazione e ha carattere ricettivo e introspettivo. Il Cancro è una delle porte dello zodiaco; il 22-23 giugno, periodo in cui inizia il segno, è anche la data del primo solstizio, quello d’estate; da questo momento il sole comincia a decrescere per arrivare al punto minimo in cui tornerà a salire, il 22-23 dicembre, coincidente col solstizio d’inverno. Nella tradizione greca e latina i solstizi erano chiamati “porte” che i Romani ritenevano custodite da Giano. La tradizione cristiana invece, ha collegato i due solstizi con San Giovanni, detto nel folclore “San Giovanni che piange” e “San Giovanni che ride”; nei giorni suddetti il sole sembra infatti avviarsi alla morte e alla nascita. Il simbolismo delle due porte potrebbe essere espresso nelle torri che si stagliano sullo sfondo del Tarocco; l’illustrazione rappresenterebbe in tal modo un luogo di ingresso e di passaggio; i due cani ne sarebbero i custodi, funzione attribuita a questo animale fin dall’antichità; un altro dei suoi complessi aspetti mitici è quello di psicopompo, ossia di guida delle anime nella notte della morte, come Anubis, il dio egizio dalla testa di sciacallo che accoglieva il defunto al suo arrivo nell’Aldilà. 
La luna, tra tutti gli astri, è stata quella capace di far nascere nell’uomo le più profonde suggestioni emotive; la sua pallida luce argentea e misteriosa, i suoi cicli, la sua influenza sulle acque, sulla vegetazione e la vita animale, hanno suggestionato fin dall’antichità l’immaginazione umana, che le ha attribuito una ricchissima mitologia.
In correlazione al sole, simbolo del principio maschile, la luna rappresenta da sempre quello femminile e in particolare è collegata all’archetipo della Grande Madre; tra le numerosissime deità lunari ricordiamo l’egiziana Iside e la babilonese Isthar che avevano un assoluto potere sulle cose viventi. In Grecia l’astro si identificava con la dea Selene, il cui nome appunto significava “luna”, con Artemide e con Ecate. Artemide, sorella di Apollo, era una divinità agreste e cacciatrice solitamente rappresentata come una fanciulla in vesti corte e munita di arco e frecce, affiancata da una cerva e un cane; secondo la leggenda la muta di cani che sempre la seguiva le era stata regalata dal dio Pan. Un altro animale che le veniva attribuito era l’orsa, da cui l’appellativo di “Brauronia”. Le sue conoscenze comprendevano la magia e la medicina, e si pensava che da lei potessero provenire la malattia e la guarigione. Il mito relativo alla dea non è tra i più ricchi e in genere ne riflette la rigida pudicizia e il rifiuto per le gioie dell’amore; la dea infatti desiderò restare vergine e punì sempre in modo crudele chi tentò di sedurre lei o le fanciulle del suo seguito.
Ecate era anch’essa una dea lunare, se pur negativa; si trattava infatti di una divinità funesta che portava turbamento e distruzione e governava sulle potenze infernali, la magia e la negromanzia. Aveva l’epiteto di “kyon mèlania”, ossia “nera cagna” e si credeva che il suo errare fosse accompagnato da cani; era una divinità mostruosa, rappresentata con tre teste o tre corpi congiunti ed esprimeva l’aspetto lunare negativo, la perdita della ragione, la follia.
In astrologia la luna, il cui segno grafico è il geroglifico a forma di falce, aveva fin dall’antichità pari dignità col sole nel determinare il destino individuale; nello zodiaco rappresenta l’elemento femminile e la si studia per capire verso quale tipo di donna è indirizzato l’uomo; simboleggia altresì la madre e, in una donna la femminilità. Più genericamente in un oroscopo si guarda la luna per conoscere il grado di sensibilità, di intuizione, di immaginazione della persona, nonché il suo equilibrio mentale e il suo rapporto con l’inconscio e i sogni. Una luna “malata” può in un tema natale, rappresentare un individuo fragile e nevrotico, facile preda di crisi psichiche. Essendo un astro “rapido” (il suo ciclo infatti si compie in 28 giorni) simboleggia anche il movimento, o meglio l’erranza; un tema con forte dominante lunare può indicare un destino instabile e vagabondo.
L’astro è legato anche ai ritmi biologici, al tempo che passa, alla fertilità; se il sole è in rapporto con l’elemento Fuoco, la luna rappresenta l’Acqua e la pioggia, agente fecondatore del suolo; in talune culture ne era addirittura la causa; in Cina tale dispensatrice di fecondità era la dea lunare Heng-Wo cui si dedicava una grande festa annuale con cerimonie riservate esclusivamente alle donne. In Europa la Luna aveva ed ha ancora in parte, un ruolo centrale nelle credenze superstiziose, soprattutto in relazione all’influenza che eserciterebbe sulle forme viventi, dai capelli alle unghie, dalla vegetazione agli animali; è noto che la fase crescente è favorevole alla semina e all’accoppiamento degli animali, mentre quella calante è propizia per le azioni di raccolta, di potatura, di conservazione. Tali teorie hanno una base indubbiamente veritiera, anche se spesso se ne è esagerata la portata.
Per il suo particolare ciclo di crescita e decrescita e la sua sparizione nel cielo, il destino della luna era spesso associato alla nascita e alla morte dell’uomo a causa delle sue fasi che la rendono visibile o invisibile. Di conseguenza l’idea che i morti debbano soggiornare su quel pianeta, fu conservata in varie culture, come la Grecia, l’India e l’Iran. Secondo i filosofi Pitagorici, le anime degli eroi e dei condottieri vi passavano un certo periodo di tempo, in un cammino ascensionale che toccava successivamente il sole, la via lattea e la sfera suprema; la luna era considerata uno spazio dove le anime dei giusti si purificavano e rigeneravano per accedere a una condizione superiore. Anche nell’apologetica cristiana l’astro era collegato con la resurrezione, come si può leggere in Sant’Agostino: “La luna nasce ogni mese, cresce, raggiunge la pienezza, cala, si consuma, si rinnova; ciò che accade alla luna ogni mese avverrà una volta per sempre alle anime nella resurrezione”. Secondo antiche credenze la luna poteva causare episodi ciclici di pazzia: nell’Orlando furioso dell’Ariosto Astolfo venuto in possesso dell'ippogrifo, vola sulla Luna per recuperare il senno perduto da Orlando, che ritroverà all'interno di un'ampolla. Secondo l'Ariosto la Luna è specchio e complemento della terra, dove si trova tutto ciò che gli uomini hanno perso o buttato per errore.
Secondo Wirth la Luna splende su un territorio accidentato e pericoloso, pieno di trabocchetti che sono le idee e le teorie erronee, i giochi mentali, gli illusori prodotti dell’immaginazione. Il cancro, animale vorace, pulisce il fondo dello stagno da tutto ciò che è corrotto; i cani impediscono alla mente di entrare nelle regioni proibite che si aprono al di là delle due torri. L’astro simboleggerebbe il gioco delle illusioni che ingannano la mente umana e la fanno errare nella desolazione.
Il numero del Trionfo, il XVIII, rappresenta la luce riflessa, il cattivo giudizio, il tradimento e l’inganno.