L’Arcano rappresentante la Torre, nel mazzo Visconti è andato perduto. Dobbiamo affidarci ai Tarocchi di Carlo VI per tentarne un’ipotetica ricostruzione; in essi la carta raffigura una Torre colpita da una lingua di fuoco proveniente dal cielo; i muri si sgretolano tra le fiamme, mentre grosse pietre rovinano a terra. Nei Tarocchi di Marsiglia l’iconografia si modifica: il fuoco celeste scoperchia la costruzione; dischetti colorati, probabilmente pietre o grandine, piovono dal cielo mentre due personaggi precipitano al suolo, rovinando assieme all’edificio.
Varie sono le denominazioni con cui è ricordato questo Arcano; la più antica lista di Trionfi a noi nota, il “Sermones de ludo cum aliis”, della fine del Quattrocento, lo chiama “Sagitta”, ossia “Saetta”, con allusione al fulmine rappresentato; altri termini piuttosto discordanti, sono “Inferno”, “Casa del Diavolo”, “Casa dei Dannati”, “Casa di Plutone”. Significati decisamente negativi, come si vede, che contrastano con la denominazione “Casa di Dio” (in francese “Maison de Dieu”) assegnatole a partire dal XVII secolo. Ma perché questa strana ambivalenza? L’idea alla base del Tarocco è l’ira divina che colpisce senza pietà là dove l’uomo ha peccato; il luogo della colpa, viene distrutto dall’intervento di Dio. Ma quest’azione punitiva ha però anche uno scopo di purificazione; dopo di essa il posto sarà nuovamente consacrato, perché vi si è manifestata la divinità: la Casa del Diavolo si trasformerà in Casa di Dio.
Fin dall’antichità tutto ciò che proveniva dal cielo acquistava carattere magico o sacrale: il fulmine era un attributo di Zeus, ma anche del dio indiano Indra. Nell’Eneide Virgilio lo descrive come un dardo infiammato da cui si dipartono tre raggi di grandine, tre di pioggia, tre di fuoco, assieme a tuono e lampi. Il re degli dei lo usava per punire chi gli si ribellava e per primo lo sperimentò sul padre Crono e sui Titani. Lo scrittore greco Artemidoro di Daldi nel suo trattato sui sogni dice che i fuochi provenienti dal cielo preannunciano minacce di vario genere, invasioni, sterilità, carestia. Secondo lui il fulmine onirico era un buon segno solo per i poveri in quanto, come il fuoco distrugge la materia, così avrebbe distrutto la loro indigenza; i ricchi, per lo stesso motivo, avevano tutto da perderci. Per gli antichi cinesi, la rottura dell’equilibrio tra Yin e Yang, le forze che governavano il creato, provocava tuono e fulmini. Nell’I Ching l'esagramma “Chen”, “Il tuono”, parla di scuotimento e spavento “per 100 miglia” al manifestarsi delle potenti forze della natura; nel complesso positivo, esso è associato alla primavera; i commenti aggiungono che in tale stagione lo scatenarsi delle forze naturali promette fertili sviluppi. Questo duplice aspetto terrifico e benefico del fulmine ricorre nei miti di molti popoli antichi che sovente credevano che gli alberi e i luoghi colpiti dal fulmine fossero dotati di poteri magici; Greci e Romani addirittura li recintavano, vi costruivano altari, vi celebravano sacrifici. In ambito celtico la quercia era messa in relazione col fuoco celeste, forse perché ne era facilmente colpita. Anticamente si credeva che le piante parassite di quest’albero, come il vischio, fossero prodotte dal fulmine e dotate di potere magico; i Druidi, gli antichi sacerdoti Celti, lo raccoglievano con un falcetto d’oro per impadronirsi della sua forza. La superstizione è rimasta fino al secolo scorso: in Germania, ad esempio, fino a non molto tempo fa, le piante che crescevano sulle querce si chiamavano “scope del fulmine”. Queste credenze si ritrovano in tutto il mondo. Nell’America del sud si pensava che il fulmine donasse fertilità o proprietà magiche; presso gli Incas, coloro che praticavano la divinazione affermavano di esserne stati colpiti.
Nel Tarocco di Marsiglia il fuoco celeste produce pietre o grandine, un vero e proprio flagello. Le dimensioni dei dischetti colorati possono riferirsi alle une o alle altre; in molti testi antichi la grandine è assimilata a sassi che piovono dal cielo. Il paragone non è esagerato; infatti, benché raramente i chicchi di grandine superino i 2 cm di diametro, le cronache meteorologiche parlano, anche in tempi recenti, di chicchi grossi come pompelmi o addirittura come palloni da basket. Una grandinata celebre in tal senso si è verificata a Dallas, nel Texas, l’8 maggio 1926, quando caddero dal cielo, provocando immaginabili disastri, pezzi di ghiaccio che dovevano pesare fino a 6/7 kg l’uno. Non si fa fatica a pensare che, di fronte a un simile flagello, gli antichi lo credessero causato dalla collera divina; la grandine è infatti tra le piaghe con cui Dio colpì l’Egitto per convincere il Faraone a liberare il popolo ebraico. Essa è citata varie volte nella Bibbia come una manifestazione del potere divino per punire i peccatori e i nemici del popolo d’Israele. Nell’Apocalisse gli uomini sono travolti da “grandine grossa come un talento”; il talento era una misura di peso variante dai 26 ai 40 kg a seconda delle regioni; la cifra, volutamente iperbolica, vuole riferirsi alla terribile collera distruttiva di Dio.
Non solo la grandine poteva piovere dal cielo sugli uomini peccatori, ma anche sangue, zolfo, insetti, pietre. Gli antichi conoscevano le “pietre del fulmine e della pioggia”, entrambe di origine meteoritica. Provenendo dal cielo, esse erano cariche di potere magico ed erano variamente adorate o usate a scopo propiziatorio. Anche le punte di frecce e le asce di pietra levigata erano simboli del fulmine presso varie popolazioni primitive e dotate del potere di attirarlo o allontanarlo. Molti di questi sassi erano collegati con riti di fertilità; presso i Fang del Gabon, se una pietra del fulmine era posta tra le gambe di una partoriente, la poteva aiutare ad espellere il bambino; in altri casi i magici sassi erano invocati per avere figli e per assicurarsi la prosperità. Gli abitanti del Messico precolombiano li chiamavano “oro della pioggia” e li conservavano con tutti gli onori in una cassetta appesa al totem del villaggio. Infine una celeberrima pietra celeste è la Pietra Nera della Ka’ba alla Mecca, definita “la mano destra di Dio”, su cui i fedeli giurano eterna fedeltà alle dottrine dell’Islam.
Nel Tarocco marsigliese il tetto che l’ira divina fa crollare ha forma di corona regale, trasparente allusione al simbolo del potere umano per eccellenza, travolto dal potere ben più grande di Dio; la costruzione evoca la biblica torre di Babele, in lingua babilonese “Bab Ilo”, “la porta di Dio”. La narrazione, contenuta nella Genesi, racconta come Dio punì gli uomini, che avevano costruito una superba torre che raggiungeva il cielo, confondendo il loro linguaggio. Nella storia biblica l’Eterno si manifesta come fattore di divisione; la punizione per l’orgogliosa pretesa umana di unire le proprie forze e affrontare il cielo è la diaspora che disperderà uomini e culture diverse sulla faccia della terra. Storicamente la torre di Babele è assimilabile alla Ziggurat, il tempio-torre mesopotamico a terrazze sovrapposte, che poteva anche raggiungere i 100 metri d’altezza.
Come edificio, la torre era assai comune anche nel panorama medievale italiano e ne restano tracce cospicue nelle città e nelle campagne della penisola. Presente anche in araldica e in molti stemmi nobiliari, era emblema di antica e importante nobiltà e di dominio feudale. Poteva essere casa ma anche fortilizio; molti statuti cittadini proibivano di lanciare da questi edifici sassi o altro materiale, specie contro il palazzo del Comune o la Curia, pena la demolizione della torre stessa; come si vede anche nella realtà della storia umana l’orgogliosa protervia rappresentata da questo edificio poteva essere drasticamente ridimensionata.
L’aspirazione a un raggiungimento titanico al di là delle forze umane è combattuto anche in molte religioni. Nel Vecchio Testamento è detto: “tutte le valli dovranno essere innalzate e tutte le montagne e colline dovranno essere abbassate, e ciò che è diseguale dovrà diventare piano, e ciò che è gibboso diventare liscio” (Isaia 40,4). Cristo nel Vangelo rammenta che: ”Chi si innalza sarà abbassato. Chi si abbassa da solo dovrà essere innalzato”. Così l’I Ching, di ispirazione taoista, all'esagramma N.15, “La modestia”, ricorda che: “il nobile diminuisce quello che è troppo ed aumenta quello che è poco. Egli pondera le cose e le rende uguali”.
Nell’interpretazione esoterica, il Wirth associa la Torre al simbolo zodiacale dello Scorpione in cui le energie sotterranee emergono aggressivamente per distruggere ciò che è creato. La violenza e la passionalità sono caratteristiche dell’individuo che ha il sole in questo segno; esso rappresenta anche la trasformazione attraverso la putrefazione della materia; in tal senso può essere assimilato all’opera al nero del processo alchimistico.
Il numero XVI, associato alla carta, ne riflette la simbologia nefasta di crollo e distruzione.